Barbara Manfredi

Barbara Manfredi

Barbara Manfredi, sfortunata Madonna di Forlì

La storia di Barbara, figlia di Astorgio III dei Manfredi signori di Faenza, moglie di Pino III degli Ordelaffi signori di Forlì, corse lungo la via Emilia e si dipanò tra Faenza, Forlì e Forlimpopoli nei lontani anni Sessanta dello splendido e terribile Quattrocento.

Concomitanze, vicende politiche e forse scelte personali fecero sì che la sua storia si concentrasse in pochi anni, sufficienti a far sì che il suo destino, anziché procedere nella lenta evoluzione di ogni vita, si avviluppasse in modo sempre più inestricabile, fino a bruciarne la giovinezza. Fino a dare origine ad una leggenda.

Barbara era nata nel 1444. Era cresciuta alla corte dei Manfredi, figlia prediletta di un signore che prima di tutto era un condottiero, tanto spietato ed infido nei fatti d’arme quanto dolce e fidato nell’ambiente familiare, ma che poteva definirsi anche un uomo di cultura, amante delle arti e della poesia. Sua madre era Giovanna Vestri da Cunio, contessa di nobiltà carolingia; suoi maestri nell’infanzia furono alcuni dei più celebri umanisti faentini, i cui insegnamenti erano condivisi dalla sorella Elisabetta, poiché godevano entrambe dello stesso tipo di educazione cui erano destinati i quattro fratelli maschi: Carlo, Federico, Galeotto e Lancillotto. Nel palazzo dei Manfredi di quegli anni era palpabile la sensibilità all’arte nel vasellame, negli arazzi, nelle casse dipinte, in un ambiente cortigiano che, lontano dai campi di battaglia e asettico alle miserie della vita reale, si dilettava di danze e gare poetiche, cacce e cavalcate.

La politica familiare dell’epoca volle che lei e la sorella, in un periodo di rara sintonia tra la corte di Faenza e quella di Forlì, venissero date in sposa ai due signori di questa città, i fratelli Cecco e Pino Ordelaffi, in quella che sulle prime assunse i contorni di una bella fiaba.

Nel 1451 fu festeggiata la duplice promessa di matrimonio e per prima la maggiore, Elisabetta, sposò Cecco nel ’56, per trasferirsi l’anno successivo, come era consuetudine, nel palazzo dello sposo. Le nozze di Barbara con Pino furono celebrate solo qualche anno più tardi e fu nel 1462 che Barbara raggiunse la sorella a Forlì, una città che fin da subito le sembrò in una fase di evoluzione verso la cultura rinascimentale, ma un passo indietro rispetto all’amata Faenza.

La bella fiaba ebbe breve durata; in quegli anni la situazione politica forlivese non era tra le più serene, in quanto la città era divisa tra i sostenitori di Cecco, che essendo il maggiore di età veniva considerato il vero signore, e la sempre più minacciosa fazione che sosteneva Pino il quale, essendo minore di un anno, si faceva le ossa al seguito dei maggiori condottieri dell’epoca.

Infatti già nel 1463 Pino era stato costretto a guidare le sue squadre nella sfortunata guerra di Puglia e a lasciare sola la giovane moglie, mentre il fratello a corte governava indisturbato e riempiva di attenzioni Elisabetta, considerata da tutti Madonna di Forlì. Barbara si sentiva trascurata e si lamentava col padre di essere “la più isventurata madonna d’Italia”, costretta dalla sorella a vestire come una servetta per non offuscarne l’immagine e sempre in secondo piano nelle attenzioni dei cortigiani. Un inferno per una diciottenne.

La leggenda, attraverso le parole dei cronisti dell’epoca, vuole che da questo momento prendesse forma l’invidia e poi l’odio per la sorella e per Cecco, tanto da renderla partecipe, al ritorno in patria di Pino, della preparazione di una congiura che fosse fatale al cognato. Il cronista Leone Cobelli lascia intendere addirittura che fosse lei a preparare una pozione letale che fallì il suo scopo solo per un caso fortuito; e la racconta impegnata a travestirsi per partecipare alle riunioni notturne dei congiurati fino al gennaio del 1466, l’anno in cui il colpo di stato fu messo a segno e Cecco venne prima imprigionato e in seguito ucciso.

Pino divenne così unico signore e Barbara acquisì il diritto di essere chiamata Madonna di Forlì. Ma la sua soddisfazione non durò che pochi mesi. Nell’estate di quello stesso anno, mentre la corte si trovava a Forlimpopoli per scampare le avvisaglie di una pestilenza e per giovarsi delle salutari acque della Fratta, secondo la leggenda Pino entrò in possesso di una lettera che la moglie aveva affidato a un messaggero e venne così a conoscenza di una relazione tra Barbara ed un nobile forlivese, Giovanni Orcioli, che in quei mesi ricopriva la carica di podestà a Firenze. La giovane stessa aveva programmato un viaggio nella città toscana per le ultime settimane d’estate, ma quel viaggio non ebbe mai luogo, perché la Manfredi si ammalò ed in breve tempo fu preda di un “flusso di corpo” così violento e repentino da far riconoscere a molti i segni di un potente veleno. Morì il 7 di ottobre e a nulla valse il soccorso della madre, che in poche ore da Faenza l’aveva raggiunta.

Pino, che fosse colpevole o meno di avvelenamento, incaricò lo scultore Francesco Ferrucci da Fiesole di riprodurne le fattezze prima che fosse chiusa nella tomba e di rappresentarla distesa sul letto di morte nello splendido monumento che fu poi posto nella chiesa di San Biagio.

Poco meno di cinque secoli dopo, al termine della seconda guerra mondiale, una bomba distrusse la chiesa ed infranse il sepolcro, che tuttavia venne ricomposto e, restaurato, fu ospitato in San Mercuriale, dove tuttora può essere ammirato. In quell’occasione il corpo di Barbara fu trovato quasi intatto, mummificato, tanto da consentire che venissero svolte analisi sui tessuti. Ma non fu trovata traccia di veleno.

Forse morì davvero per cause naturali. In fondo era a Forlimpopoli proprio per curare disturbi di cui ignoriamo la natura. Forse fu uccisa dal marito, ipotesi che oggi pare meno probabile ma che alimentò la penna del cronista e che in qualche modo, tramutandosi in leggenda, ne garantì la sopravvivenza nei secoli preservando il suo nome fino a noi, che abbiamo strumenti di indagine sempre più moderni ed efficaci ma che in fondo, forse proprio per questo, siamo sempre più assetati di mistero e di favole.

Sergio Spada